giovedì 31 agosto 2017

4 - GINOCCHIONI

1943: gli alleati si presentano per quello che sono
(e a Reggio, e nel sud in genere, è durata poco)
Continua la pubblicazione dei racconti di Chi c'è c'è, raccolti da un "geestre" direttamente dalle menti di 21 terrestri in animazione sospesa su un astronave perduta nel cosmo, forse ultima vestigia del nostro pianeta ormai distrutto. Questo è il sogno di una ragazza di Roma, di origini calabresi.

4 - GINOCCHIONI

Questo non è il mio incubo. Io non posso avere questi ricordi: non erano ancora nati i miei genitori, durante la 2^ guerra mondiale. Mio nonno aveva 8 anni, però, in quell’estate del 1943 quando la guerra passò dalla Calabria. Pochi mesi, niente rispetto a quanto subirono l’Italia centrosettentrionale e molti altri posti al mondo, ma prima dello sbarco gli alleati ci andarono giù bene con le bombe, e insomma mio nonno era un bambino. Nessuno può avvicinarsi a definire cosa succede nella testa di qualsiasi bambino che vive una qualsiasi guerra. Questo non è il mio incubo. Ma adesso lo sogno io.
Abbiamo dovuto lasciare quasi tutto, a casa. Anche il mio seggiolone di legno. Anche la mia bicicletta. Ma le bombe erano sempre più vicine, e più frequenti. Una era caduta proprio vicino casa nostra, ed aveva ucciso una vicina che conoscevo benissimo, perché mi offriva sempre una delle sue gassose con la pallina, quando andavo a trovarla. Ora la sua casetta da fuori sembrava quasi intatta: la bomba era caduta proprio al centro del tetto, portandoselo giù tutto. L’ho vista perché dovevamo passare da lì, per andare dove dovevamo andare.
Pavigliana era alle prime pendici dell’Aspromonte, ancora una frazione della grande Reggio, ma a più di dieci chilometri dalle ultime case della città, ed erano tutti stretti tornanti, a tratti ripidi. Più si saliva, più ci si trovava stretti tra il costone argilloso, meraviglioso con i suoi mille strati tutti pieni di conchiglie, ché mio padre mi spiegava che una volta il mare era tanto più alto, e la scarpata, a tratti il dirupo, verso il torrente. Mio padre, un già allora vecchio socialista antiinterventista e imboscato nella Grande guerra, poi antifascista e perciò licenziato dalle ferrovie, quella strada l’avrebbe fatta in giù e in su tutti i giorni, per il periodo che siamo rimasti a Pavigghiana, per rimediare qualcosa. Ma per me era ‘a strata r’a sciumara, la strada del torrente.
Laggiù d’inverno sarebbe stato pericoloso avventurarsi, perché le piogge in montagna sono frequenti e le nostre montagne sono subito alte, così l’acqua e il fango potevano arrivare improvvisamente, e la pietraia diventava una trappola mortale, a maggior ragione per un bambino. Ma d’estate era quasi sempre del tutto asciutto, e quella stessa distesa di sassi diventava un immenso parco giochi, fatto di ciottoli, massi, legni e fantasia. Così stavo spesso laggiù.
Ero un bimbo ubbidiente, e tardavo a rincasare solo quando in qualche modo - che so, cadendo - mi ferivo, e solo perché avevo paura di mia madre, che – sapevo - mi avrebbe dato il resto. Mammà era sarta, oltre che ottima cuoca, e come con fave e castagne faceva miracoli di pasta pane focacce e pasticci, così da un vecchio lenzuolo poteva far venire un completino per me e due splendide camicette per le mie sorelle. Tanto io ero piccolino e di stoffa per me ne bastava poca. Fra l’altro allora portavo sempre i calzoni corti, anche d’inverno: solo a quindici anni avrei avuto i miei primi pantaloni lunghi.
Allora però i pantaloncini avevano un altro senso, non voluto ma pertinente. Gli aerei infatti spesso si spingevano su per i vaddhuni  in esplorazione, e se ne avevano in più sganciavano anche qualche confetto; così noi avevamo scavato dei buchi nelle montagne, un po’ dappertutto, in modo da avere comunque un rifugio, ma soprattutto lungo la strada, per la sicurezza di chi si avventurava a cercare provviste ed altre occorrenze.
Ora, un po’ perché i buchi erano bassi anche per un ragazzino, ma soprattutto perché la mia paura era addirittura esagerata, e appena sentivo l’eco degli allarmi lontani cominciavo a correre così forte da perdere il controllo dei piedi, mi ritrovavo sempre con le ginocchia per terra, e spesso cadevo proprio sulle pietre del torrente. Non ricordo più se soffrivo maggiormente per la fifa, il dolore a quelle mie ginocchia sempre sbucciate e livide (o meglio, mulingianate ), o la vergogna per quelle volte che me la facevo letteralmente addosso.
Durò solo un’estate: a settembre eravamo di nuovo a casa. Ma c’era chi non tornò più, e molti di questi perché – ironia della sorte, in cerca di maggior sicurezza - erano partiti verso l’altitalia, inconsapevolmente verso la guerra vera.
Quando una persona vive una guerra nella sua infanzia non è più una persona libera, pensavo quando mio nonno mi raccontava queste storie di sé bambino che ora io sogno. Se però l’esperienza servisse a qualcosa una nuova guerra potrebbe avvenire solo quando tutta la generazione che aveva vissuto la guerra precedente in tenera età fosse scomparsa, o fuori gioco. Invece quarant’anni dopo, con la generazione di mio nonno al potere, toccò alla generazione di mio padre avere paura.
Ora io sono mio padre, adolescente nell’era dell’equilibrio termonucleare, cioè della pace basata sulla minaccia reciproca della distruzione tramite guerra atomica. Che non si concretò, in quegli anni “80, forse solo perché non era il momento. Questo non è il mio incubo: è quello di mio padre, ora.
La prima bomba cadde per sbaglio (o volete fare - tanto che importa? - per colpa di un comandante di sottomarino uscito di senno per troppo prolungata astinenza sessuale?), ma il dispositivo bellico era così complicato nei suoi automatismi che non fu possibile fermare l’escalation nucleare. I civili assunsero gli atteggiamenti più disparati… Ah, già: chi non viveva vicino alle metropoli o alle basi degli euromissili non morì subito. Chi si abbandonava all’isteria, chi allo sconforto, chi si dava ai saccheggi, chi alla fuga. Io partii verso Nord, a piedi, perché mi avevano detto che dalla stazione di Vibo-Pizzo partiva ancora qualche convoglio diretto alle zone più disastrate tra quelle non cancellate dalla carta geografica, e che si raccoglievano lì delle squadre spontanee di soccorso.
Speravo così di dare senso a quel tot di vita che mi restava, ma dopo una trentina di chilometri mi accorsi che il sangue che sputavo veniva dai polmoni e non dai denti, e lo scirocco mi suggerì che quella massa di aria calda e puzzolente era passata su Comiso poco prima. Così deviai, quasi d’istinto, verso l’Aspromonte, quasi a ricercare i luoghi dei racconti di mio padre sull’altra guerra. Ore ed ore di cammino.
Ritrovai i vecchi rifugi scavati nell’arenaria, così bassi da doverci entrare ginocchioni, e troppo inutili per questa nuova tragedia. La gente moriva per strada, e quand’anche le gambe mi avessero retto non sapevo proprio dove andare a cercare cibo, medicine - e quali, poi? - e soccorsi. Ma visto che non mi hanno retto, visto che sono crollato sulle ginocchia e a testa in su, per la prima volta mi sorpresi a pregare. E pensai che chissà quanti altri stavano pregando chissachì proprio in quel momento. E doveva essere vero, perché le nostre preghiere furono esaudite, quando l’ultimo missile sciolse tutta la montagna come fosse burro, almeno a giudicare dall’ultimo colore che vidi.
Mio padre ovviamente non visse realmente queste cose, non morì così. Si sposò, tardi invero, e i suoi geni sopravvivono in questa ragazza di Roma, una delle 13 prescelte per la salvezza della razza umana, cui non è stato concesso, però (è questo il prezzo che pago), di sapere se e come è finita davvero. Per quanto ne so io, potremmo essere tutte dentro un frigorifero di un laboratorio, cavie di un crudele esperimento, e non dentro un’astronave decollata verso lo spazio profondo. Per me, ora, non cambierebbe nulla, non conta quello che penso io.
Questo non è il mio incubo.

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